Wednesday, 30 March 2011

Le mani sul Nord Africa


«Alimentare i conflitti, “balcanizzare” il territorio, lasciare rovine, frammentazioni etniche e sociali, affidarsi a emergenze umanitarie… Tutto ciò consente agli squali di abbuffarsi copiosamente». È un passaggio dell’editoriale di Nigrizia di aprile. Che anticipiamo.

Tale è la confusione sotto il cielo del Mediterraneo che ogni valutazione è un azzardo. Ed è in tempi di sbandamenti come questi che anche il vocabolario perde la bussola. Non scorre neanche più un brivido nella mano, quando si abusa dell'ossimoro più ingombrante: "la pace armata". O quando si definisce come "politica di pace" quella delle cannoniere e dei Tornado.

E i civili sotto le bombe del despota? Dovevamo ignorare il loro grido di dolore e le loro richieste di aiuto? Ma il paradosso dei paradossi, che anche i più "volenterosi" nel sostenere l'attacco alla Libia del tiranno Gheddafi non riescono a sciogliere, è che si è voluto impedire il massacro di civili attraverso massacri di altri civili. Un circolo vizioso da cui non si esce. Perché sono le premesse a essere fragili.

Per raccontare quello che sta accadendo in Libia e nel Maghreb, si è inflazionato il termine "alba". "Alba della democrazia", per descrivere i collassi dei regimi tunisino ed egiziano. "Alba dell'Odissea", per battezzare l'operazione militare contro Gheddafi. Brutta immagine, questa seconda. Ma forse spietatamente sincera. Odissea, per indicare un viaggio lunghissimo, pieno di rischi; alba, per dire che siamo solo all'inizio e che nessuno sa quanto lontana ancora sia la Itaca di pace.

E se fossimo, invece, ancora nel cuore della notte? Se il film che si gira non fosse una "prima", ma il solito remake? In fondo, quello innescato a Tripoli è un meccanismo della storia che si ripete in modo ossessivo. Sempre uguale a se stesso.

Si armano i regimi, grazie all'afflusso dei capitali globali di paesi assettati di risorse. Si firmano accordi economici che avvantaggiano le élite, trascurando le disuguaglianze sempre più marcate che gli stessi accordi generano. Si ignorano le tensioni sociali, economiche, politiche e ambientali prodotte nei paesi più deboli dai patti vergati dai regimi con le nazioni ricche. E quando le tensioni arrivano al punto di rottura, o quando esplodono del tutto, si interviene con le bombe. I regimi, contro la propria popolazione. Gli ex "amici", contro il dittatore e a favore dei civili. I quali, comunque vada, restano sotto le macerie, uniche vere vittime.

Alimentare i conflitti, "balcanizzare" il territorio, lasciare rovine, frammentazioni etniche e sociali, affidarsi a emergenze umanitarie... Tutto ciò consente agli squali di abbuffarsi copiosamente. Nascono nuovi affari. Perché, nel caos, è più facile costruire nuovi equilibri. Fino a quando riemerge un altro rais, con il quale stringere altri patti. E la giostra ricomincia. Fino alla bomba successiva. E alla selva di nuovi commenti scandalizzati.

Lo chiamano "sano realismo". Che, per le diplomazie di mezzo mondo, significa solo badare al proprio business. Dobbiamo accettare passivamente di far parte di questo teatrino dei burattini?

La verità è che la crisi libica, come molte altre crisi in giro per il mondo, non lascia spazio a soluzioni soddisfacenti. I rimedi non sono facili. Ma ciò che è apparso evidente a molti, da subito, è che quell'intervento militare occidentale non aveva solo una natura umanitaria. Velava ambizioni egemoniche e il desiderio di mettere le mani sulle risorse energetiche e strategiche dell'area. E di ripristinare una certa influenza in Africa. Per Sarkozy, il vero motore mobile dell'azione guerriera occidentale, si è trattato di restituire alla Francia una posizione di leadership nel Mediterraneo e nell'Africa Centrale. Per Washington, con il battesimo di fuoco di Africom - il comando per le operazioni statunitensi nel continente - di lanciare un messaggio alla Cina, l'altro grande competitor in terra africana.

Siamo ancora in una visione geopolitica statica, perché mira all'autoconservazione dei rapporti di forza già scritti. Contrastati dall'Unione africana (Ua) e da diversi presidenti del continente, i quali temono che un'ingerenza militare occidentale possa tradursi in una presenza di lungo periodo nell'area. Un riposizionamento delle grandi potenze coloniali in Africa.

Tuttavia, anche qui la confusione è massima. E numerose le gimcane etiche. Il lamento postumo dell'Ua, ad esempio, è compatibile con il silenzio che ha accompagnato le rivolte libiche e la repressione gheddafiana? La voce dell'Ua è da sempre molto flebile. Soprattutto quando si tratta di criticare o condannare chi la foraggia. Libia, Angola, Nigeria, Egitto e Sudafrica finanziano il 75% del bilancio dell'Unione africana. Non solo. I dittatori e gli autocrati che governano quell'istituzione potranno mai condannare un loro simile? Il quietismo tirannico che regna nelle stanze di Addis Abeba è l'humus ideale dove può crescere il nuovo colonialismo occidentale o asiatico.

Se Francia, Inghilterra, Usa, Israele, Cina, Brasile... possono fare la voce grossa nel continente e muoversi militarmente, è perché trovano le porte spalancate. Un neocolonialismo che denuda la fragilità delle istituzioni africane, infervorate a gridare "No, all'invasore". E silenti nel condannare i despoti.

Nigrizia - 24/03/2011 tratto da www.nigrizia.it